Scorie - La coscienza di Sergio

"Non possiamo demandare al funzionamento dei mercati la creazione di una società equa, perché non hanno coscienza, non hanno morale, non sanno distinguere tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. L'efficienza non è e non può essere l'unico elemento che regola la vita. C'è un limite oltre il quale il profitto diventa avidità e chi opera nel libero mercato ha il dover di fare i conti con la propria coscienza."
(S. Marchionne)



Spesso capita di sentire affermazioni, come questa di Sergio Marchionne, in cui i "mercati" sono trattati come entità capaci di pensare e agire autonomamente. Solitamente il passaggio successivo mette in luce presunti difetti del mercato che devono essere corretti.

In realtà il mercato non ha un'esistenza propria: esistono coloro che scambiano beni e servizi. Sono le loro azioni a determinare i prezzi che si formano su un mercato, i profitti e le perdite. In un mercato libero, tali azioni danno luogo a scambi volontari che, in quanto tali, comportano un vantaggio soggettivo sia per chi vende, sia per chi compra (altrimenti non vi sarebbero scambi volontari). Va da sé che la volontà e l'azione di un soggetto non debbono essere viziate da una violenza subita (o da una minaccia di subire violenza), altrimenti quel mercato non è libero.

Un libero mercato necessita, pertanto, di un sistema di tutela dei diritto di proprietà. Nulla di più, nulla di meno. Da questo punto di vista, sono davvero rari, ahimè, i mercati liberi. Il fatto è che, non di rado, sono proprio gli interventi statali volti a "correggere" i presunti "difetti" del mercato a viziare la volontà di chi effettua gli scambi.

Resta il fatto che il mercato in quanto tale non può avere coscienza, morale o distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Sono coloro che effettuano gli scambi a dover fare tali valutazioni. Quanto al concetto di equità, in un mercato libero (come prima definito) l'esito degli scambi è necessariamente equo, altrimenti non vi sarebbero scambi.

Il problema è che molti tendono a considerare equo non già ciò che deriva da scambi volontari, ma ciò che essi ritengono essere equo. Lo stesso dicasi per i concetti di giusto o sbagliato. Questo è piuttosto pericoloso, soprattutto se ne deriva l'invocazione dell'uso dei mezzi politici per generare ciò che si ritiene equo e giusto. Che è poi quanto puntualmente si verifica.

Secondo Marchionne c'è "un limite oltre il quale il profitto diventa avidità e chi opera nel libero mercato ha il dover di fare i conti con la propria coscienza". Io credo che chiunque debba fare i conti con la propria coscienza a prescindere dal "limite", che è ovviamente soggettivo.

Trovo peraltro abbastanza ipocrita che certe cose le affermi Marchionne, evidentemente alla ricerca di un applauso a buon mercato (parlava alla Luiss: di solito quando si parla ai giovani è politicamente corretto disprezzare il profitto).

In un mercato autenticamente libero il profitto non è altro che un indicatore della capacità di un'impresa di soddisfare le esigenze dei clienti. Non è quindi la dimensione del profitto il problema, bensì come lo si ottiene. Se lo si ottiene per via di interventi legislativi che limitano la concorrenza e/o favoriscono un'impresa o un settore, oppure impongono al consumatore determinate scelte, allora quel mercato non è libero.

Ma invece di parlare di iniquità del mercato, sarebbe bene criticare gli interventi che distorcono il mercato stesso. Non di rado, invevce, chi parla di iniquità del mercato sollecita correzioni (casualmente a proprio vantaggio), o quanto meno non le disdegna.

Suppongo, però, che sia molto più comodo tirare in ballo la coscienza. Costa molto meno, in termini di profitti.
 
 
 
 
 


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